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LA CROCE: NON E’ MODERNA!
Sarebbe più attuale un ergastolo, ma silenzioso.


E’ vero che l’apostolo Paolo raccomanda di rallegrarsi con quanti sono nella gioia, ma io non riesco a condividerla con quanti si dicono felici per la dichiarazione di Strasburgo di rimuovere i crocefissi. So benissimo anch’io, con buona pace di Emma Bonino, che il crocefisso deve essere nel cuore e nella prassi di chi si dice credente; e vorrei rassicurarla che, anche dopo il suo “esodo”, sono tanti a ricordarlo. Ma non riesco a capire quei autoreferenziali cattolici, che da “piccolo seme” tendono a ramificare in tutti i gangli ecclesiali, come non si accorgano che dietro alla conclamata “laicità” che si schiera con tutte le minoranze etniche e religiose ci sta un laicismo con un preciso contenuto anticristiano, contrario alla fede cristiana fatta di una precisa identità interiore ed esteriore della fede, bisognosa di proprio di quella fede che la storia ci consegna: e tra questi il crocifisso, le chiese, i cristiani stessi, testimoni che quanto possiedono non crea separazione o contrapposizione perché l’Annuncio è per loro e per tutti. La Croce ed il crocefisso, con la verticalità e l’orizzontalità, sono sintesi di un umanesimo che non discrimina nessuno; il senso della vita che racchiudono è libro e sapienza per l’uomo, ed il crocefisso che vi è appeso non è delimitabile nell’avventura di un popolo o di una particolare cultura, ma è interpretazione della vita come dono. Non riesco a capire perché ad essere consequenziali questi amici “pieni di gioia” dovrebbero scrivere ai Vescovi che Gesù non è stato crocefisso; forse per essere più aggiornati dovremmo parlare di un “silenzioso ergastolo” e di una morte insignificante: dimenticato nella botola di Caifa, poi la croce ed il calvario, messa in scena dei primi cristiani mistificatori con finale strappalacrime per pie donne (la Resurrezione). Comprendo che quando si prende come ermeneutica della Fede una qualsivoglia ideologia (una mai ben definita laicità dello Stato) si corre il rischio che la volontà di pochi si faccia paladina della concezione della vita dei più. Qui il dispiacere diventa rodìo, perché anche in altre occasioni questi amici hanno perso il senso del “popolo” che volevano rappresentare: non leggono la sua vita, non l’ascoltano, non comprendono le sue necessità vere… in balia della loro ideologia (difendi la minoranza per abbattere la maggioranza) perseguono un mondo del quale essere “scrittura”, magistero, cultura; e, se si ritagliano uno spazio ecclesiale, norma della fede di tutti: non in nome di un Fatto cristiano e della missione della Chiesa, ma della loro immaginata verità fata di “aprirsi” mai verificati. Di costoro chi non ne conosce? Considerano giusto che lo statuto epistemologico della religiosità, e nel caso nostro del cristianesimo, sia definito al di là di ogni esperienza religiosa con criteri aprioristici e ideologizzati. Accettano che l’identità cristiana ed il suo compito nella cultura sia descritto da chi, in nome della laicità, insegna che il cristianesimo è un “fortunato equivoco storico” e, violando l’ultima virtù rimasta, la tolleranza, continuano con il plauso e la gioia di alcuni cattolici a segare il ramo sul quale stiamo seduti. Non accettano il metodo ecclesiale di individuare un “fine” da raggiungere e perseguirlo mettendo in comune conoscenza, esperienza, conoscenza della realtà. Presentano la loro ricetta già pronta, protestano in nome del pluralismo e perseguono il fine che tutti si adeguano alla loro “scoperta”. Ma il Vangelo (almeno quello di Marco, mi sia concesso!) nasce come contestazione di ogni pretesa assolutistica di ogni potere umano. Gesù Cristo e questi crocefisso (aggiungerà San Paolo) è Figlio di Dio, è salvezza per l’uomo; e non lo stato laico o laicista, anche se si presenta come libertà per tutti garantendo tuttavia il potere per pochi. Allora, da che parte stare senza contrappormi a nessuno e sapendo fin dall’inizio che la fede può essere vissuta sotto qualunque regime e al di là di ogni muro del silenzio? Sto con il numero crescente dei martiri di oggi in nome della Croce, e quindi di coloro che per amore del crocefisso sono lì, dall’Oriente all’Africa, nella stessa Europa, per amore e a servizio di tutti. Sto con chi invoca di non lasciarci cadere in una cultura delle “zucche” esorcizzanti la morte. Sto sulle strade strette delle montagne ripide come la vita, dove ad ogni svolta il Crocefisso accompagna, incoraggia, indica, al di là della morte e di ogni morte o mortificazione, la resurrezione. Sono con i crocifissi della mia gente, i malati, i licenziati, i costretti a spendere perché non si sappia la loro indigenza, con i giovani chiamati da un manifesto, enorme, di piazza Vittorio: “il popolo dei Murazzi deve raccontare la sua storia”. Storia dello spreco della giovinezza, dei vomiti per le strade, della droga e della mancanza di futuro, crocefissi alla devianza per l’ingordigia di denaro di una pseudo cultura effimera. Giovane insegnante in una scuola di questa città, negli anni ’80, era diventata moda farmi trovare il crocefisso sulla cattedra con l’invito a ritirarlo in sacrestia; qualche volta spaccato sbattendolo contro il muro; una volta nascosto ed al suo posto un cartello: “torno subito!”. Dissi a quei ragazzi che non avevo mai ascoltato una così bella professione di Fede. E’ tornato, torna e tornerà quasi subito: è Risorto. Continuo a stare con loro, con i crocefissi, nel susseguirsi delle generazioni, ma quando racconto della notte in cui fu tradito, consegnato, barattato per essere crocifisso; quanto riferisco le sue parole a Pilato: “tu non mi avresti se io non mi fossi consegnato”… non leggo sul volto dei ragazzi l’attenzione per una storia che non appartiene a loro, ma il racconto dell’inizio di un umanesimo che appartiene, anche oggi, ad ogni persona umana: quello della libertà nel donarsi, quello dell’andar oltre l’abbandono, quello della fedeltà alla missione ricevuta, quello dell’amore che non conosce condizioni per amare, quello della fiducia in Dio che sta dalla parte del sofferente, della vita da vivere fino alla fine perché non la morte ma l’eternità felice l’attende. Attorno a questi valori, che il crocifisso ricorda al cristiano, al laico, all’islamico, al buddista, all’animista…, vorrei con qualcuno ritrovarmi. Allora sì che sarei pieno di gioia! E’ però vero che faccio parte di quei cristiani che trovano più “bello” il Tabor del Calvario… tuttavia mi consolo poiché, a suo tempo, c’era anche un certo Pietro. Addirittura.

don Ezio Stermieri